Articolo di Umberto Minopoli
Ieri La Repubblica ha sostenuto che la società nascente della rete unica ultraveloce è la confessione del fallimento della privatizzazione di Telecom, avvenuta con il governo Prodi, e corrisponde alla volontà pubblica di ricomprarsi la infrastruttura di Tlc. Non è assolutamente così. Intanto per una ragione di fondo: la rete unica di cui si parla non è tutta l’infrastruttura di Telecom Italia, che è fatta non solo di rete in fibra, ma anche di cabinet, centraline, rete fissa in rame, rete mobile, sviluppo delle innovazioni e delle tecnologie, dorsali, data center, cloud, centri di ricerca, laboratori di analisi, etc… Qui c’è il grande equivoco di fondo. Tim è una società infrastrutturale: per riprendere tutte le infrastrutture, unica possibilità per lo Stato sarebbe lanciare un’Opa. Così come Telecom fu privatizzata nel 1997, cioè quasi 25 anni fa.
Invece la rete di cui si parla è quella che, grazie agli investimenti della Telecom privata, ma anche di Fastweb e di altri operatori, si è costruita nel frattempo. Parliamo della rete fissa in fibra: fortemente integrata con le sinergie di sviluppo per le reti mobili, basata sulla centralità della fibra rispetto al rame, non bloccata all’ultimo miglio ma che porta la banda ultralarga direttamente nelle abitazioni, predisposta alle nuove tecnologie digitali. Altro che ricomprarsi la vecchia “gloriosa” rete dell’antica Stet. In realtà, grazie anche alla privatizzazione del 1997, noi godiamo già oggi di un’infrastruttura di rete tra le prime al mondo, moderna (anche se incompleta), predisposta al salto di qualità dell’Internet ultraveloce. La natura privata delle Tlc italiane ha garantito due cose essenziali per il futuro: la presenza dell’Italia nelle tecnologie moderne di Tlc e il mercato di consumo tra i più avanzati al mondo e con i migliori prezzi per i consumatori. Ora però la rete Tlc, sia primaria (fiber to cabinet, dalle centrali alle stazioni base) che secondaria (fiber to home, dalle stazioni alle case) ha bisogno di grandi e urgenti innovazioni e di una mole di investimenti (completamento della copertura con fibra, eliminazione del digital divide, integrazione con il 5G). Investimenti che, per dimensioni, Tim potrebbe garantire, ma non in tempi brevi; mentre l’operazione che viene disegnata può generare abbastanza rapidamente una formidabile accelerazione tecnologica del sistema paese. Una grande opportunità da realizzare, sfruttando anche il Recovery Fund che si può utilizzare per la rete solo garantendo una struttura e un mercato aperto, non monopolistico e di garanzia della concorrenza per tutti gli operatori, italiani e stranieri: pubblico in senso di plurale e non statale.
Quindi, non solo non bastano Tim e lo Stato, ma è necessario – altro che ri-statalizzazione! – l’ingresso di altri privati (operatori come Vodafone e fondi di private equity) che compartecipino agli investimenti necessari. Per questo, a ben guardare, l’operazione rete unica, al di là del nuovo pacchetto azionario di Cdp, è già segnata dal processo inverso di una pubblicizzazione, con il subentro di un fondo di private equity americano nelle quote Enel di Open Fiber. La proprietà della futura rete unica resterà così a maggioranza privata. È la sua governance che cambierà: da quasi ex monopolio (Telecom) a società compartecipata. Chi pensa, perciò, al ruolo della Cdp come al ritorno della Stet e del monopolio pubblico, racconta cose non vere. È il contrario. Cassa depositi e prestiti (di cui vanno pubblicamente lodate capacità, efficienza e managerialità dell’attuale gruppo dirigente) ha un compito del tutto opposto ad una pubblicizzazione. Deve garantire il mercato aperto e plurale attuale. Anzi aprirlo di più: oggi la rete primaria (e in parte la secondaria) è ancora un monopolio dell’ex incumbent. Più privati nella rete unica futura vuol dire vera terzietà della infrastruttura, sua indipendenza (anche rispetto ai nuovi proprietari), attrattività di mercato (per attirare fondi e investitori privati). Insomma, mercato. La presenza di una banca di investimenti pubblica, la Cdp, deve essere di arbitro tra i privati e garantire il perseguimento del solo interesse strategico dello Stato: costruire la rete ultraveloce in ogni angolo del paese. Per offrire i futuri servizi e applicazioni della banda larga a tutti i potenziali consumatori italiani: una grande operazione di più e non meno mercato.
La conclusione è che tutti noi dobbiamo ormai imparare il nuovo lessico del terzo millennio: interesse pubblico e governance condivisa col pubblico sono del tutto distinti da ” proprietà statale” o monopolio statale. E, nelle Tlc, anche dal concetto dello Stato tappabuchi o “solutore dei fallimenti di mercato”. Le Tlc non sono la sede di un fallimento di mercato. Tantomeno di una privatizzazione andata a male. Sono una straordinaria opportunità di mercato. Come su Aspi la Cdp non resuscita l’Autostrade statale dell’Iri, sulla rete unica non resuscita la Stet. La Cassa è una banca che entra in un’operazione che deve dare profitto (per essa e per i partners privati) e non in un fallimento di mercato (tipo Alitalia).
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